La Scuola della Regolazione

Enrico De Sanso


1. CONTESTO STORICO-ECONOMICO E PRIMI SPUNTI TEORICI

La Scuola della Regolazione (d’ora in poi SdR) nasce in Francia all’inizio degli anni ’70, quando i primi economisti del gruppo osservarono una rottura nelle regolarità di lungo periodo tipiche dei sistemi capitalistici del secondo dopoguerra. Gli stessi fondatori (Aglietta, Coriat, Boyer) riconducono la nascita della SdR alla congiuntura socio-economica che, dopo 1973, caratterizzò la maggior parte dei paesi dell’OCSE, ovvero la rottura del modello di crescita della Golden Age (il Fordismo). I Regolazionisti decisero così di concentrarsi, da un lato, sui meccanismi che mantennero alti i tassi di crescita dei paesi avanzati tra il 1950 ed il 1973 e dall’altro, sulle cause della successiva crisi. A tal proposito, è importante anticipare che l’oggetto della ricerca Regolazionista non fu il Fordismo in sé, ma bensì le trasformazioni che investirono tale regime d’accumulazione capitalistica tra il 1971 (introduzione dei cambi fluttuanti) ed il 1975 (crisi da stagflazione).

Aglietta fu il primo a descrivere il Fordismo come una “forma strutturale”, un regime di crescita caratterizzato da regolarità economiche (e non) che permetterebbero un’accumulazione capitalistica continua; per questo motivo, gli scritti del 1974 e 1976 rappresentano le pietre miliari dell’intera scuola Regolazionista. Ne riprenderemo qui gli spunti che hanno poi influenzato i lavori più recenti.

Secondo Aglietta (1976), nell’accumulazione fordista, il versante economico delle regolarità è composto dall’introduzione della catena di montaggio, la creazione di guadagni di produttività e l’estrazione del plus-lavoro. Sul versante non economico, l’autore francese sottolinea l’importanza della contrattualizzazione tra sindacati e datori di lavoro, attraverso cui furono stabiliti per la prima volta delle regole di condivisione dei guadagni di produttività e quindi, aumenti salariali sistematici[1].

In tale regime d’accumulazione, il consumo degli stessi lavoratori salariati è il motore della crescita ed i guadagni di produttività vengono ripartiti attraverso “convenzioni sociali” negoziate. Le forme strutturali economiche e non sono quindi convogliate all’interno di una dinamica coerente, regolare e potenzialmente infinita. Secondo quest’analisi sarebbe proprio una crisi della produttività a mettere in discussione l’insieme dei meccanismi di regolazione, dall’uso della forza-lavoro, all’interventismo statale attraverso la politica economica, dalla forma di moneta a quella della concorrenza interna ed internazionale.

2. CONCETTI ED OBIETTIVI FONDAMENTALI

La Sdr utilizza tre concetti principali (Boyer 2003; 2004) che, interagendo tra loro, conferiscono alla dinamica evolutiva del sistema economico una configurazione di lungo periodo:

Ø regime di accumulazione, ovvero i meccanismi che permettono il raggiungimento ed il mantenimento della crescita economica. In altre parole è dato dall’insieme di “regolarità” che assicurano la compatibilità tra il processo di accumulazione del capitale, la produzione, la distribuzione del reddito, la formazione della domanda interna, i rapporti con le forme di produzione non capitalistiche ed i valori condivisi tra le differenti classi o gruppi sociali;

Ø 5 forme istituzionali fondamentali, ovvero le codifiche di uno o più rapporti sociali fondamentali che condizionano, sia il modo di regolazione, sia il regime di crescita direttamente legato al regime d’accumulazione capitalistica. Esse possono essere ordinate gerarchicamente tenendo conto delle caratteristiche (storiche, economiche e sociali) dello scenario analizzato. Generalmente, la SdR le raggruppa in: forma concorrenziale, ruolo dello Stato, regime monetario, relazioni internazionali e compromesso capitale/lavoro[2];

Ø modo di regolazione, ossia l’insieme delle regole e delle procedure (norme, consuetudini, leggi) che assicura il funzionamento e la capacità di perdurare nel tempo del processo d’accumulazione all’interno di un sistema  capitalistico di produzione. Distinguiamo dunque tra modo di regolazione concorrenziale (accumulazione estensiva del capitale e guadagni di produttività quasi nulli), monopolista o fordista (accumulazione intensiva del capitale) e quello attuale nato a partire dagli anni ’70;

Il primo di questi concetti è stato più volte messo in discussione e nel corso degli anni sono state avanzate le più svariate definizioni; ne presenteremo solamente due, assumendo le altre come tentativi minori di affinare la nozione. La prima riprende le ipotesi marxiste fondamentali in materia di teoria della riproduzione: un regime d’accumulazione è definito in senso “settoriale” in cui il settore I e II (di Marx) sono collegati tra loro. Al contrario di keynesiani e neoclassici (che lavorano su modelli di crescita astratti e atemporali), la “prima” SdR cercò di mettere in evidenza i regimi d’accumulazione osservabili storicamente e riconducibili alle caratteristiche del Paese; avvicinandosi a Marx, i Regolazionisti descrissero queste peculiarità attraverso le relazioni tra il settore I e II (ovvero verificando il ruolo motrice del settore I o del settore II, peso relativo nel valore aggiunto di ogni settore, diffusione dei guadagni di produttività tra uno e l’altro settore…). L’approccio Regolazionista mette quindi al centro dell’analisi le dinamiche contraddittorie che caratterizzano il sistema produttivo e che ruotano attorno alla doppia natura della merce (che nell’ottica marxista ha valore d’uso e di scambio).

In modo complementare, la seconda definizione poggia su un’altra delle contraddizioni essenziali al centro della dinamica capitalistica, ovvero le condizioni secondo cui sono ottenuti e distribuiti i guadagni di produttività. Questa seconda visione di un regime d’accumulazione si concentra dunque sul rapporto tra capitale/lavoro e ancora prima, tra il conflitto essenziale tra salario e profitto.

Anche in base ai lavori di Boyer, è possibile desumere che, in ogni caso, ognuna di queste definizioni necessita dell’identificazione delle forme strutturali essenziali, nonché del ruolo che esse giocano all’interno della dinamica d’insieme. Boyer definisce e classifica queste forme istituzionali, per poi ipotizzare delle possibilità di combinazione intrinseche; a seconda dei casi, la SdR sarebbe quindi capace di desumere gli elementi del regime d’accumulazione caratterizzante un dato Paese (Coriat, 1986). Dopodiché, è necessario considerare il regime d’accumulazione ed il modo di regolazione individuati come delle componenti storiche, che appunto possono essere definite come delle codifiche ed assemblaggi delle forme istituzionali fondamentali, risultato del gioco degli attori economici, del movimento delle classi sociali e dall’insieme delle contraddizioni essenziali esistenti (Coriat, 1986).

Nonostante si possa individuare un regime d’accumulazione, non è possibile però prevederne né la durata né il momento della crisi; in altre parole, anche se le forme istituzionali vengono tradotte in un modo di regolazione relativamente stabile, gli attori individuali o collettivi non cessano mai di modificare il campo in cui essi stessi operano e di conseguenza, un regime d’accumulazione non si potrà mai dire totalmente acquisito. Sono quindi possibili delle rotture nelle regolarità, delle piccole  o grandi crisi nel modello di crescita che ne modificano o bloccano il cammino. Più in particolare, la SdR distingue tra:

  • crisi esogene, dovute ad avvenimenti esterni al sistema. Possono perturbare ma non mettere in pericolo il modo di regolazione ed ancor meno, il regime d’accumulazione;
  • crisi endogene, espressioni stesse del modo di regolazione. Coincidono più o meno con il periodo di depressione del ciclo di Juglar e permetterebbero di “purificare” il sistema e riassorbire i disequilibri accumulatosi durante il periodo d’espansione. In tal senso non sarebbe necessario un’alterazione delle forme istituzionali (crisi piccole), ma solo una loro piccola modifica;
  • crisi del modo di regolazione, portano ad una spirale depressiva che può essere fermata solo da una modifica sostanziale delle forme istituzionali essenziali (grandi crisi, come per esempio quella del ’29);
  • crisi del regime d’accumulazione, impediscono il raggiungimento di una crescita di lungo periodo e necessitano di un stravolgimento istituzionale. Anche qui i Regolazionisti portano come esempio la crisi del ’29 e le modifiche essenziali avvenute tra le due guerre, ovvero il passaggio da un regime d’accumulazione caratterizzato da una produzione di massa senza consumo di massa, al sistema capitalistico fordista con produzione e consumo di massa.

L’oggetto della teoria della regolazione, può essere quindi sintetizzato nell’analisi della crescita e della crisi delle istituzioni sulle quali un’economia si fonda; prendendo spunto dalle teorie marxiste, schumpeteriane ed istituzionaliste, i Regolazionisti interpretano la storia del capitalismo come una successione di modi di regolazione che, di volta in volta, si rinnovano o evolvono, per effetto delle crisi. La SdR insiste quindi sulla dimensione contraddittoria dei rapporti sociali e sulle conseguenze della dinamica ad essi riferita.

3. PRIMI RISULTATI, AFFINITÀ E CONTRASTI CON LE ALTRE SCUOLE DI PENSIERO

Questi concetti sembrerebbero capaci di spiegare il passaggio dalla Golden Age alla crisi degli anni ’70. Secondo la SdR, il punto di svolta fondamentale è stata una lunga serie di mutazioni congiunte nell’apparato produttivo, nelle convenzioni collettive, nella gestione pubblica della forza lavoro e della moneta. La crisi nasce fondamentalmente dall’azzeramento (definito d’origine storica, tecnica e sociale) dei guadagni di produttività e del prelevamento del pluslavoro (Coriat, 1979).

Oltre a rispondere al perché della crisi, i Regolazionisti hanno poi cercato di capire perché il Fordismo è caduto proprio negli anni ’70. Coriat e Aglietta fanno riferimento alla “deregolazione” del sistema condotta a partire dai grandi scioperi del ’68, a shock esterni (monetario del 1971, petrolifero nel ’74 e ’79): i limiti storici delle forme strutturali del fordismo non si sono rivelate adatte a contrastare queste tensioni che ne hanno richiesto una metamorfosi. A questo proposito, Boyer sostiene che durante il periodo a cavallo tra il 1973 ed il 2000, sarebbe emerso un nuovo modo di regolazione; esso sarebbe caratterizzato da una pluralità di configurazioni istituzionali la cui interconnessione darebbe luogo a 3 modelli compatibili e ad una crescita di lungo periodo. Quest’ultima sarebbe fondata sulle tecnologie dell’informazione, della comunicazione (TIC) e della conoscenza. Questi tre modelli sarebbero riferiti al:

i) Modello social-democratico (Danimarca e Paesi Bassi), che articola la diffusione delle ITC ad un alto livello di spesa per l’educazione e la ricerca, il mantenimento di una prospettiva d’uguaglianza sociale e un mercato del lavoro fortemente istituzionalizzato;

ii) Modello Schumpeteriano (Stati Uniti, Austria ed Irlanda), fondato sul ruolo centrale del mercato (in particolare del lavoro) e sull’appropriazione privata delle conoscenze;

iii) Modello di recupero che permette a certi paesi (Portogallo), d’accedere ad un nuovo regime di crescita senza passare per gli stadi di quello fordista.

Secondo Aglietta invece, è possibile assistere ad un nuovo modo di regolazione solo a partire dagli anni ’90, quando si distinse un capitalismo patrimoniale caratterizzato dalla “presa di potere” dell’azionariato in seno alle grandi aziende. Esso fa conseguentemente riferimento all’imposizione di nuove norme di gestione, alla predilezione per risultati di breve termine, ad una logica finanziaria diffusa, una trasformazione profonda nell’organizzazione produttiva (responsabilizzazione, flessibilità ed esternalizzazione) ed infine, a nuove relazioni salariali (individualizzazione del rapporto di lavoro e scomparsa della negoziazione collettiva).

Sulla base delle considerazioni precedenti, cerchiamo ora di comparare la SdR con l’approccio di altre scuole di pensiero, verificando le modalità attraverso cui esse hanno affrontato la crisi del fordismo (riprendiamo tale analisi da Coriat 1986). Come è facile prevedere, l’opposizione alle teorie neoclassiche è pressoché totale: i Regolazionisti assumono l’esistenza di un mercato instabile ovvero che necessita di istituzioni, mentre i neoclassici lo ipotizzano autoregolante e le istituzioni sono viste come elementi di disturbo. Con i keynesiani ed i neo-keynesiani esisterebbe invece un accordo “implicito” sul ruolo centrale giocato dalla regolazione della domanda effettiva e del mercato interno per mantenere la stabilità di un regime d’accumulazione. Allo stesso tempo, si possono trovare delle profonde differenze date dal fatto che, per esempio, il modello di crescita ipotizzato dalla SdR non è generalizzato ma differenziato a seconda delle forme istituzionali ed i fatti storici presenti in un dato contesto economico. In questa maniera i Regolazionisti ritornano sulle teorie di Marx (ovvero sul rapporto tra la sezione I, II e più recentemente, III), ma si tengono alla larga dalle scuole dette “marxiste”. Lo stesso Coriat considera sopravvalutata gran parte dei concetti di sovraccumulazione/devalorizzazione che, in realtà, non sarebbero capaci di spiegare pienamente i meccanismi d’accumulazione e di crisi. La SdR ha dunque cercato d’identificare delle categorie intermediarie corrispondenti alle forme produttive reali o istituzionali e derivanti direttamente dalle forme strutturali di Marx (e dal rapporto salario e capitale).

4. IL RUOLO DELLE ISTITUZIONI ECONOMICHE

Per quanto riguarda le istituzioni, la SdR adotta un approccio marxista: esse sono auto-generate da interazioni e conflitti tra gruppi e classi (i rapporti sociali fondamentali) e corrispondono quindi a compromessi sviluppatesi a partire da questi conflitti. Tali compromessi prenderebbero la forma di contratti (quando sono frutto di rapporti diretti tra le parti coinvolte) oppure di leggi e regolamenti (nel caso in cui le parti coinvolte trovano un compromesso attraverso la mediazione di un terzo soggetto, spesso rappresentato dai poteri pubblici). A differenza dei contratti, le leggi ed i regolamenti formano la base dell’organizzazione sociale e vengono per questo definiti  “compromessi fondamentali istituzionalizzati”. Come già detto, a dispetto dei neoclassici, che considerano le istituzioni come delle rigidità, degli ostacoli alla crescita economica, i regolazionisti le valutano come regolarità, ossia delle condizioni nascoste e spesso facilitanti lo sviluppo. In qualche modo, esse formano la vera “mano invisibile” che dà al mercato una certa coerenza e determinate finalità. Inoltre, “les institutions économiques les plus essentielles n’ont pas toujours pour origine ou principe une logique exclusivement économique. Si l’on adoptait cette optique, ce serait un principe d’efficacité qui gouvernerait la sélection des institutions” (Boyer, 2003, pag. 3). In questi termini, la SdR si avvicina al pensiero di North, perché ipotizza che le istituzioni emergano dai conflitti sociali dovendo spesso passare per la sfera politica (e non da una selezione secondo efficienza economica).

I concetti della SdR hanno una particolare propensione all’applicazione pratica, come dimostrato dallo stesso Boyer nell’articolo del 2003, in cui propone uno schema a 6 fasi per l’analisi della dinamica istituzionale in un dato modo di regolazione. La prima tappa, deve essere dedicata alla classificazione delle forme istituzionali attraverso un’analisi storica della loro apparizione. La seconda fase invece, dovrebbe cercare di riconoscere le caratteristiche del principio di razionalità insito nella forma istituzionale[3]. Una terza tappa, sarebbe dedicata alla verifica delle caratteristiche delle regolazioni parziali (ossia la formazione dei salari, dei prezzi, del tasso d’interesse, della domanda, ecc…), mentre il successivo quarto stadio dovrebbe essere volto ad un esame sulla coerenza della dinamica d’insieme del modo di regolazione parziale individuato.

In questo senso, la particolarità della SdR è quella di non postulare a priori l’esistenza di una dinamica stabilizzata poiché è possibile che l’incompatibilità tra i comportamenti legati alle diverse forme istituzionali si liberi in una dinamica incoerente. Inoltre, secondo i Regolazionisti, ad ogni regime di accumulazione corrisponde sempre una crisi strutturale, che va interpreta in una quinta tappa (attraverso la definizione dei fattori di destabilizzazione del regime corrispondente). Infine, la sesta tappa concerne un’analisi nel corso della quale vengono messe a confronto delle strategie e delle concezioni contraddittorie che, nella quasi totalità delle esperienze storiche, si sono risolte solamente attraverso l’intervento politico e la codifica giuridica di nuove forme istituzionali.

5. ODIERNE PROSPETTIVE DI RICERCA

Oggi i Regolazionisti dibattono soprattutto sul tema istituzionale cercando di rilevare ed identificare con precisioni quali siano le istituzioni di base, necessarie e sufficienti per la costituzione di un’economia capitalistica; un altro tema ricorrente è naturalmente quello riguardante le condizioni secondo cui una eventuale configurazione istituzionale generi un processo di aggiustamento economico dotato di una certa stabilità (ovvero un regime d’accumulazione vero e proprio). Si vuole così spiegare il rinnovamento periodico delle crisi durante dei regimi di crescita che, prima di esse, avevano riscontrato successo, nonché le modalità attraverso cui le istituzioni del capitalismo si trasformano: attraverso la selezione, attraverso l’efficacia, come suppongono la maggior parte delle teorie economiche, o bisogna rifarsi al ruolo determinante della politica? Esiste poi un dialogo tra Regolazionisti, convenzionalisti, sociologi dell’azione individuale ed evolutivi sulla definizione di istituzionalismo, strutturalismo e soprattutto di come tenere conto del contesto storico ed istituzionale locale, che rappresentano i fattori fondamentali nell’analisi empirica della SdR.

Bibliografia

Aglietta M. (1974), Accumulation et régulation du capitalisme en longue période. L’exemple des Etas-Unis (1870-1970) (Paris: Insee).

Aglietta M. (1976), Régulation et crises du capitalisme (Paris: Calmann-Lévy).

Boyer R. (2003),Les institutions dans la théorie de la régulation’, CNRS Working Paper, No. 8.

Boyer R. (2004), Théorie de la régulation. Les fondamentaux (Paris: La découverte, Collection Repères).

Coriat B. (1986), ‘La théorie de la régulation. Origines, spécificités et perspectives’, testo della conferenza tenutasi a Nagoya, Giappone, 1986.


[1] Più in particolare, Aglietta (1976) descrive il modo di regolazione fordista come caratterizzato da: i) una crescita parallela di produttività e domanda grazie ad una politica di alti salari (contrattazione collettiva); ii) struttura della produzione incentrata su beni di consumo di massa durevoli; iii) volume alto e stabile di investimenti in capitale fisso; iv) cooperazione tra banche centrali e governi per controllare il sistema delle banche commerciali; v) prevalenza delle banche commerciali come fonte di finanziamento alternativa alla Borsa; vi) interventismo efficace degli stati nazionali, orientato al raggiungimento e al mantenimento del pieno impiego di lavoratori a tempo indeterminato.

[2] La prima forma istituzionale comprende il sistema monetario, la struttura del credito e le organizzazioni finanziarie. La seconda include l’organizzazione del processo economico, i principi di remunerazione, l’educazione della forza lavoro e gli schemi di sicurezza sociale. Il regime competitivo concerne la struttura produttiva, il grado di oligopolio e i vincoli alla formazione dei prezzi. La configurazione dello Stato indica invece le caratteristiche dell’amministrazione pubblica e delle interazioni con l’economia. Infine, le relazioni internazionali includono tutte le interazioni economiche con gli altri paesi, gli accordi internazionali, ecc…

[3] Secondo la SdR infatti, ogni forma istituzionale è portatrice di una certa logica e quindi influenza il comportamento razionale o meno degli attori.

2 risposte a “La Scuola della Regolazione

  1. cari ragazzi,

    ero uno studente di economia a bologna.

    nel 98 mi laureai in econometria su una tesi che proponeva la verifica statistica di un modello di crescita cumulativa che determinasse un certo grado di disoccupazione tecnologica strutturale.
    discussi molto col mio relatore che dissentiva totalmente da tali teorie. lavorai in perfetta solitudine per più di 2 anni ed alla fine presi 4 punti di tesi.
    non so se ne sia valsa la pena. mi fa piacere però vedere come negli ultimi tempi in ambito di teorie economiche critiche da sinistra questa scuola sia stata rivalutata e riconsiderata. vedi anche i lavori di fumagalli.
    all’epoca però vi assicuro che mi sembrava di essere un marziano…

    saluti

    nc

  2. cari ragazzi,

    ero uno studente di economia a bologna.

    nel 98 mi laureai in econometria su una tesi che proponeva la verifica statistica di un modello di crescita cumulativa di R. Boyer che determinasse un certo grado di disoccupazione tecnologica strutturale.
    discussi molto col mio relatore che dissentiva totalmente da tali teorie. lavorai in perfetta solitudine per più di 2 anni ed alla fine presi 4 punti di tesi.
    non so se ne sia valsa la pena. mi fa piacere però vedere come negli ultimi tempi in ambito di teorie economiche critiche da sinistra questa scuola sia stata rivalutata e riconsiderata. vedi anche i lavori di fumagalli.
    all’epoca però vi assicuro che mi sembrava di essere un marziano…

    saluti

    nc

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