Rapporti economici come pratiche sociali: il caso della filiera veronese del grano biologico

Andrea Sellaroli e Jacopo Magnani

1. INTRODUZIONE

La teoria economica dominante descrive un’economia priva di rapporti sociali. In questo modello gli agenti si muovono in modo deterministico secondo una razionalità oggettiva e la capacità dei soggetti di agire sui rapporti sociali non viene considerata. La strategia di ricerca che presentiamo in questo articolo offre un quadro completamente diverso, in cui l’economia è costituita da rapporti sociali complessi, determinati a loro volta dalle forme di agentività[1] dei soggetti. Abbiamo esplorato questa strategia di ricerca alternativa analizzando un caso di studio riguardante la filiera del grano biologico nella provincia di Verona. Le informazioni che usiamo sono state raccolte tramite colloqui e interviste con i soggetti direttamente coinvolti. L’articolo descrive lo stato attuale della filiera del grano biologico nel Veronese e presenta alcune problematiche e discorsi elaborati in quel contesto, concentrandosi sullo stadio della coltivazione dei semi e su quello della macinazione. Quindi viene svolta un’analisi teorica di questi fenomeni, utilizzando l’idea di social embeddedness di Polanyi (1944). La conclusione di questo studio è che la filiera del grano biologico è strutturata da discorsi[2] che definiscono delle pratiche culturali che orientano le azioni di alcuni agenti dell’economia locale, costituendo un vero e proprio campo di rapporti di potere.

2. LA FILIERA DEL GRANO BIOLOGICO A VERONA

Prima di tutto è necessario descrivere brevemente la filiera del grano biologico nella provincia di Verona. Abbiamo separato la filiera del pane in tre stadi: la coltivazione dei grani, la produzione della farina e la panificazione. La filiera esistente parte da grani vari, che potenzialmente vengono anche dall’estero. Una percentuale rilevante viene prodotta da soci dell’Associazione Veneta Produttori Biologici (AVEPROBI). Nel veronese il grano biologico viene macinato dall’azienda Antico Molino Rosso (AMR), che produce farina biologica, usando varie tecniche, che comprendono elementi tradizionali (ad es. macinazione a pietra) e più moderni. C’è poi una costellazione di mulini più piccoli e tradizionali, localizzati nel Veneto ma anche nelle regioni vicine. Per quanto riguarda la panificazione, il principale produttore a Verona è l’azienda Ceres. Bisogna anche tenere conto del fatto che molte famiglie o singoli producono il pane autonomamente, pratica molto diffusa tra i gruppi di acquisto solidale.

Recentemente, nell’ambito di alcuni movimenti sociali è emersa la proposta di una filiera del grano alternativa. Questa proposta è articolata in discorsi diversi, non necessariamente connessi all’interno di una visione complessiva. Alcuni di questi discorsi riguardano:

  • la qualità del prodotto (garantire una maggiore qualità del prodotto finale, in termini di standard specifici, oltre al biologico)
  • la sostenibilità ambientale (garantire un minore impatto ambientale: un tipico discorso in questo ambito è quello del “chilometro zero”, cioè  ridurre la distanza geografica tra i vari stadi della filiera per ridurre inquinamento e costi di trasporto)
  • ragioni etiche (garantire che le relazioni tra i vari soggetti coinvolti, prima di tutto, i lavoratori, rispettino determinati principi etici)
  • ragioni economiche e tecniche (aumentare l’efficienza tecnica e/o economica di determinate pratiche economiche; ad es. in agricoltura biologica si sostiene la necessità di usare le varietà locali perché sarebbero più adatte all’ambiente circostante e questa loro proprietà sostituisce l’uso di fertilizzanti e pesticidi che sono proibiti per il biologico, garantendo una produttività maggiore delle varietà non locali).

Tutti questi discorsi hanno un effetto comune: impongono condizioni e disposizioni sui rapporti di produzione e mirano ad esercitare un controllo. Questo effetto spesso non è formulato esplicitamente nei discorsi stessi. In altre circostanze invece l’argomento del controllo della produzione si aggiunge agli altri tipi di discorso. Ad esempio è possibile che il discorso del “chilometro zero” venga articolato non solo in termini di sostenibilità ambientale, ma anche come strumento di controllo della filiera da parte della comunità locale. Abbiamo cercato di analizzare come questi discorsi e le pratiche ad essi collegate vanno ad incidere sui vari stadi della filiera esistente prendendo in considerazione lo stadio della coltivazione e quello della macinazione.

3. VERSO UNA FILIERA ALTERNATIVA: PRATICHE SOCIALI IN TRASFORMAZIONE

Nell’ambito della coltivazione dei grani un progetto che parte dall’iniziativa dei produttori, in particolare da alcuni agricoltori dell’AVEPROBI, propone di introdurre dei cambiamenti nella coltivazione del grano. Si vorrebbero usare dei tipi di grano che storicamente sono cresciuti in zona e coltivarli localmente. Questi semi sono in possesso dell’Istituto di Genetica e Sperimentazione Agraria N. Strampelli di Lonigo. L’Istituto Strampelli (IS), che dipende dalla Provincia di Vicenza, nasce nel 1950 con precise “finalità pratiche di costituire un ponte fra la ricerca scientifica e gli agricoltori”. Da alcuni anni è in atto presso l’IS una attività di recupero, classificazione e riproduzione di vecchie varietà locali di cereali, coltivate nella regione fino a 150 anni fa e raccolte in una banca genetica.

Tuttavia il progetto dell’AVEPROBI si è scontrato recentemente con l’ostruzionismo della Provincia di Vicenza e in particolare dell’assessorato all’agricoltura, della Lega Nord, che controllano l’IS e hanno bloccato la collaborazione con gli agricoltori. La Provincia di Vicenza si è opposta alla concessione delle varietà di semi a cui i produttori locali erano interessati. Questo episodio si collega al tema ampiamente discusso della sovranità alimentare delle comunità e del controllo sui semi. La cosa interessante è che qui il problema non deriva dalla proprietà privata dei semi (ad esempio da un brevetto di una multinazionale su un seme locale), ma proprio dal controllo pubblico che si scontra con gli interessi della comunità. E’ interessante notare che in queste circostanze il discorso sull’uso dei semi locali descrive e qualifica i semi come bene comune, in alternativa sia alla proprietà privata sia a quella pubblica (Hardt, 2008), e si avvicina nei contenuti a quelli del Manifesto Internazionale sul Futuro dei Semi, riassunti nel seguente passaggio:

The preservation and maintenance of seeds and the knowledge about them should be based and rooted with those who make use of them. […] Strategies and technologies for the further development of seeds should be based on the wealth of experience and ingenuity of farmers and food-communities in general, and include their participation and active input into the scientific aspects of plant breeding (Manifesto on the Future of Seeds, 2006).

Passando allo stadio della macinazione, si è già detto che la maggior parte della produzione di farine biologiche è svolta dall’AMR. L’AMR produce diversi tipi di farina biologica (grano duro, grano tenero, farro, kamut, mais e altri), lavorando i grani attraverso un processo di produzione le cui fasi essenziali sono la pulitura, lo stoccaggio e la macinazione a pietra. L’AMR è una piccola impresa (16 dipendenti), che acquista i grani biologici dal Veneto ed in parte da altre regioni italiane e da alcuni stati europei. Per quanto riguarda gli acquirenti dei prodotti dell’AMR, circa metà della fatturato deriva da vendite ad altre aziende e l’altra metà da vendite a consumatori attraverso una vasta rete di distribuzione in Italia.

E’ interessante analizzare brevemente gli argomenti che vengono usati, soprattutto all’interno dei gruppi di acquisto solidale, per motivare la necessità di trovare mulini alternativi all’AMR. Un primo discorso riguarda la bassa qualità della farina biologica prodotta dall’AMR, per il tipo di processo produttivo che sarebbe impiegato (caratterizzato dalla lavorazione di grandi quantità a ritmi veloci). Poi, viene messa in luce la provenienza dei grani (non solamente locale). Spesso un’argomento usato in queste critiche è semplicemente che l’AMR “è un’attività industriale”. Infine, si sottolinea che l’AMR è un’azienda troppo grossa, che non è interessata a lavorare per i gruppi di acquisto, ad esempio macinando il grano su piccole ordinazioni.

Qual è il tipo di azienda che emerge da questi discorsi? E’ possibile rendersene conto descrivendo brevemente uno dei mulini alternativi a cui si rivolgono alcuni gruppi di acquisto (il mulino Le Barbarighe). Questo mulino, che si trova in provincia di Rovigo, produce sostanzialmente gli stessi prodotti dell’AMR (farine di grano tenero,grano duro,farro dicoccum,orzo mondo, segale, mais marano, mais biancoperla) usando processi simili. Tuttavia, le Barbarighe si distinguono dall’AMR in quanto sono una azienda familiare e tutte le farine macinate provengono da cereali coltivati in azienda. Inoltre i consumatori finali che acquistano tramite vendita diretta costituiscono circa il 70% della domanda (solo il rimanente è destinato a negozi bio, ristoranti e panificatori). Quindi questo tipo di mulino è caratterizzato dalle piccole dimensioni, dal fatto che più della metà della produzione è destinata a vendita diretta e dalla coltivazione all’interno dell’azienda. Più in generale questi discorsi definiscono un’impresa che esternalizza poco e allo stesso tempo è piccola, ovvero che è facilmente oggetto di un controllo sociale da parte della comunità.

4. SOCIAL EMBEDDEDNESS, PRATICHE SOCIALI E POTERE

Da un punto di vista teorico, sembra interessante usare l’analisi di Karl Polanyi. E’ nota l’analisi svolta da Polanyi degli effetti del mercato sulle tre “merci fittizie”, lavoro, terra e moneta (vedi in particolare Polanyi, 1944, pp. 57-61, 75-75, 92-95, 210, 228) e sintetizzata dalla seguente citazione: “permettere al meccanismo di mercato di essere l’unico elemento direttivo del destino degli essere umani e del loro ambiente naturale e perfino della quantità e dell’impiego del potere d’acquisto porterebbe alla demolizione della società” (Polanyi, 1944, p. 94). Inoltre, nell’interpretare il ruolo economico di discorsi e pratiche sociali, il concetto di social embeddedness è di fondamentale importanza. Secondo Polanyi (1944, p. 61) “l’economia dell’uomo è immersa nei suoi rapporti sociali”. In altre parole, è necessario riconoscere che i rapporti economici sono strutturati da discorsi e pratiche sociali, contrariamente a quanto assunto dall’economia neoclassica.

In realtà, la frase citata si riferiva, nel testo originale di Polanyi, soltanto alle economie pre-capitalistiche. Polanyi stesso riteneva che l’economia di mercato fosse sradicata da un tessuto sociale e che tale sistema (il nostro) fosse continuamente soggetto a crisi socio-economiche proprio perché nei mercati i comportamenti economici non sono regolati da istituzioni sociali. Questa tesi è problematica per due motivi. Primo, storicamente sono esistite società in cui i rapporti economici non erano controllati dal mercato ma in cui comunque si verificarono episodi di instabilità sociale (dovuti allo sfruttamento delle risorse naturali o all’incrinarsi dei rapporti di potere esistenti). Ma soprattutto l’idea del mercato come un meccanismo che non ha natura sociale è falsa e pericolosamente simile alla visione neoclassica. Anche l’economia di mercato è strutturata da particolari convenzioni e pratiche sociali (e ciò non toglie che queste abbiano degli effetti deleteri sui territori e le comunità).

Mentre l’impresa della teoria economica dominante massimizza il profitto in un vuoto, l’impresa reale lo fa all’interno di un contesto sociale che orienta e può vincolare le sue azioni. Inoltre, il contesto sociale, questi discorsi, queste pratiche, sono costruiti attivamente da soggetti. La nostra proposta di ricerca è di leggere questi discorsi e pratiche sociali come forme di agentività costruite attivamente per esercitare un potere (causale anche se limitato) sull’economia locale. Questo potere si esercita attraverso i rapporti sociali in cui l’economia è immersa. Non stiamo dicendo che si esercita con il ricatto degli acquisti, del tipo “se non produci secondo determinati standard non compro”. Questa visione non offre una prospettiva innovativa poiché è perfettamente compatibile con la teoria neoclassica esistente. Nella teoria neoclassica le preferenze individuali sono esogene (e rappresentabili da una funzione di utilità), il consumatore compie degli acquisti in base alle sue preferenze e così le preferenze si riflettono sui prezzi dei beni di consumo. In quest’ottica per il produttore diventa vantaggioso produrre in base alle preferenze del consumatore. Dalla sequenza preferenze-acquisti-produzione la teoria neoclassica deduce che il consumatore è sovrano. Qui vogliamo svolgere una critica del concetto di consumatore sovrano, un soggetto che sarebbe astratto da qualsiasi contesto sociale e che agirebbe solo attraverso atti di acquisto[3]. Invece ogni soggetto economico è immerso in un intreccio di rapporti socio-economici[4] e le preferenze dei consumatori non sono esogene. L’esempio più classico è quello dei bisogni indotti, in cui le preferenze sono determinate da fattori sociali, come la pubblicità. La tesi dei bisogni indotti è che in realtà gli acquisti del consumatore sono già decisi a priori, perché il consumatore è influenzato dalla pubblicità o da altri fattori sociali.

La nostra proposta di ricerca è di studiare la possibilità che la causalità vada pure nel senso opposto, cioè che anche il comportamento del produttore possa essere deciso indipendentemente dal riscontro sul mercato, attraverso i meccanismi sociali a cui egli è sottoposto. In questa prospettiva, il potere del consumatore si esercita attraverso questi meccanismi sociali (e non attraverso gli acquisti). Tali meccanismi sono costituiti da discorsi (come quello della qualità del prodotto) che definiscono delle pratiche culturali che orientano le azioni di (alcuni) agenti dell’economia locale e definiscono un’etica nel senso di Michel Foucault, cioè etica come oggetto dell’esercizio del potere e terreno delle resistenze e dei tentativi di autogoverno. Precedentemente abbiamo fornito degli esempi di quali siano gli effetti di queste pratiche sulla struttura produttiva nel nostro caso di studio e abbiamo descritto il modo in cui i produttori si adeguano a questi discorsi, via via che essi prendono piede, modificando la struttura delle imprese nel settore della macinazione oppure spostando la produzione verso i semi locali nel settore della coltivazione. Il biologico o il solidale non sono semplicemente una forma di preferenze individuali del consumatore. Che queste pratiche producano anche delle preferenze individuali in senso stretto è certo. Ma queste preferenze più che essere la causa sono il riflesso di rapporti sociali in trasformazione. Allo stesso modo, i prezzi o gli acquisti non sono il canale principale tramite cui questa influenza sociale agisce sui produttori. Tanto più che si parla di distretto, e non di mercato, insomma di un contesto in cui produttore e consumatore vengono spesso a contatto (non solo come domanda e offerta) e hanno modo di negoziare i loro comportamenti reciproci in molte occasioni diverse.

Come è stato illustrato negli esempi della coltivazione e della macinazione dei grani del nostro caso di studio, queste pratiche esprimono la volontà di autogoverno della produzione da parte di alcuni gruppi sociali. Precisamente da chi e con quale scopo esse siano messe in campo è una domanda di ricerca che richiede un’analisi più approfondita. Possiamo solo intuire che la risposta vada ricercata negli sviluppi più recenti della storia economica dei conflitti tra capitale e lavoro. Con questo articolo non vogliamo fare un’apologia delle forme attuali in cui alcuni soggetti esercitano il loro potere di trasformare i rapporti socio-economici, ma abbiamo cercato di contribuire alla comprensione critica di questi meccanismi.

Bibliografia

Polanyi, K. (1944), La Grande Trasformazione (Torino: Einaudi).

Hardt, M., & Nilsen, R. (2008), ‘We need to broaden our political possibilities’, disponibile su: http://www.eurozine.com/articles/2008-11-03-hardt-en.html (accesso: 1 Maggio 2009).

The International Commission on the Future of Food and Agricolture, (2006), ‘Manifesto on the Future of Seeds’, disponibile su: http://www.navdanya.org/earthdcracy/seed/seedmanifesto.htm (accesso: 1 Maggio 2009).


[1] Per agentività intendiamo in questo articolo la capacità dei soggetti di esercitare un potere causale attraverso rapporti sociali.

[2] Nell’articolo usiamo il termine “discorso” nell’accezione datagli nell’opera di Michel Foucault, cioè come un sistema di pensieri, attitudini e comportamenti che costruisce sistematicamente i soggetti e gli oggetti di cui parla.

[3] Questa teoria ammette che un consumatore illuminato possa scegliere un consumo critico e responsabile. Il problema però non è considerare delle preferenze individuali progressiste ma studiare il contesto sociale.

[4] Per la stessa ragione non si dovrebbe parlare di  “consumatore”, isolando il lato del consumo di ogni soggetto dalla sua posizione complessiva nei rapporti economici della società; ad es. alcuni consumatori sono in realtà anche lavoratori e non è possibile studiare il loro comportamenti di consumo senza tenere conto di questo fatto.

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