Riflessioni intorno alla costruzione del concetto di “povertà”

Emanuele Ciani e Francesco Gastaldon


Ma tutto ciò che la scienza afferma è “oggettivamente vero”? In modo definitivo? (…) Senza l’attività dell’uomo, creatrice di tutti i valori anche scientifici, cosa sarebbe l’”oggettività”? Un caos, cioè niente, il vuoto, se pure così si può dire, perché realmente se si immagina che non esista l’uomo, non si può immaginare la lingua e il pensiero.”

Antonio Gramsci, Quaderno 4 (XIII), § <41>

1. INTRODUZIONE

Questa riflessione prende le mosse dalla constatazione che il “problema della povertà” nei Paesi del Terzo Mondo occupa ormai una posizione di predominio nel panorama dei discorsi sullo sviluppo. La consacrazione internazionale della lotta alla povertà come obiettivo centrale delle politiche di governi, delle agenzie internazionali e delle ONG è stata portata avanti da diversi protagonisti: fra i principali, dalle Nazioni Unite, attraverso la celeberrima Millennium Declaration (UN – General Assembly, 2000), dalla World Bank e dall’International Monetary Fund. I Millennium Development Goals citano la riduzione della povertà estrema come il primo obiettivo da raggiungere entro il 2015 e più precisamente si pongono come scopo “to halve, by the year 2015, the proportion of the world’s people whose income is less than one dollar a day” (UN – General Assembly, 2000, p. 5).

L’attenzione internazionale al tema della povertà non è sempre stata paragonabile a quella odierna. Anzi, negli ultimi anni l’impegno per la riduzione della povertà ha raggiunto un livello che sarebbe stato difficile da immaginare anche solo quindici anni fa[1]. La stessa World Bank, l’agenzia che ha assunto la leadership mondiale negli “attacchi alla povertà”[2], non ha sempre utilizzato il linguaggio della poverty reduction nel modo in cui lo utilizza oggi: sebbene ritenuta da sempre importante nei discorsi dello sviluppo, prima degli anni Novanta la povertà era stata raramente oggetto di interesse accademico specifico, ed era considerata più che altro come una della conseguenze del fallimento delle politiche di sviluppo in determinati Paesi. Assistiamo, quindi, ad un vero e proprio “paradigm shift” (Green, 2006, p. 1109), sia conoscitivo che operativo, che ha importanti conseguenze sull’utilizzo del concetto di povertà.

2. “ATTACKING POVERTY”?

Il World Development Report (WDR) del 2000/2001, intitolato “Attacking Poverty”, contiene gli elementi base che definiscono la linea d’azione della World Bank riguardo ai progetti di sviluppo nazionali. Gli obiettivi centrali del rapporto sono essenzialmente due. Il primo sostiene la necessità di rendere i governi responsabili verso i poveri (“poor people”). Il secondo è quello di individuare le buone pratiche attraverso le quali si può ottenere una riduzione della povertà.

La definizione di povertà adottata è multidimensionale e corrisponde ad una situazione di deprivazione individuale relativa ad alcuni indicatori di base; in particolare reddito, salute e istruzione. Queste dimensioni assumono un’importanza vitale in quanto presentano una decisa complementarietà, nel tempo e nello spazio (World Bank, 2001, p. 77). Ad esempio, l’assenza di reddito familiare in gioventù comporta generalmente un deprivazione in istruzione, ma l’assenza di un qualche titolo di studio può limitare a sua volta le possibilità di far valere le proprie abilità nel mercato. L’isolamento geografico di alcune categorie sociali e la loro distanza dal mercato-città ha un forte impatto sull’insieme delle variabili, rendendo minore la partecipazione dei poor-people ai guadagni derivanti dallo sviluppo.

I punti principali dell’argomentazione ruotano attorno alla capacità delle istituzioni di generare crescita e di renderla pro-poor (World Bank, 2000, p. 46 e seguenti). Il collegamento fra la definizione multidimensionale della povertà e l’intervento istituzionale è piuttosto ambiguo. Da una parte, si tratta di far sì che tutti partecipino allo stesso modo ai vari benefici della crescita e dello sviluppo, implementando politiche che riducano l’analfabetismo, che provvedano a costruire ospedali nelle zone rurali, che diano possibilità di studiare a figli dotati di famiglie prive di risorse o non istruite. Dall’altra parte, queste stesse indicazioni di welfare costituiscono, nell’ottica di “Attacking Poverty”, la base necessaria per garantire la riproducibilità della crescita, generando il capitale umano necessario a garantire la continuità dello sviluppo economico e sociale. Se dunque la povertà è un circolo vizioso, nel quale la mancanza di risorse pone l’individuo in condizioni di incapacità, la crescita può essere resa un circolo virtuoso che, spezzando le catene della deprivazione, libera l’abilità umana e il suo potenziale. Per fare ciò occorre lavorare su due fronti diversi. Il primo è quello di intervenire sul capitale umano costruendo, appunto, le infrastrutture sociali relative all’istruzione e alla sanità. Il secondo è quello di far sì che la voce dei poveri sia rappresentata a livello istituzionale, in particolare aumentando i poteri e l’autonomia della società civile e dei livelli locali di governo. Entrambi i fronti di “attacco” mirano ad integrare i poveri nel mercato, oppure, usando i termini del documento, a far sì che il mercato funzioni meglio per i poveri (World Bank, 2000, p. 77).

L’argomentazione presenta però almeno due punti deboli. Il primo è relativo all’effetto della crescita sulla povertà. Il documento è basato sulla tesi per la quale la crescita, se ben orientata dalle istituzioni, può ridurre la deprivazione. Va specificato che ci si riferisce qui a un criterio assoluto di povertà; ad esempio, la ben nota linea della povertà fissata a 1$ quotidiano di consumo reale pro-capite. Lo stesso documento ammette invece come non sia empiricamente chiaro l’effetto della crescita sulla diseguaglianza e, quindi, sulla povertà relativa (World Bank, 2000, p. 52). In termini tecnici, l’effetto sull’indice di Gini è ambiguo. Si noti che in linea teorica, la povertà assoluta può ridursi anche se l’indice di Gini non muta. Se i benefici della crescita tendono ad essere distribuiti proporzionalmente fra tutti, allora i redditi di tutti cresceranno nella stessa proporzione. Dato che l’indice di Gini rispetta la proprietà di invarianza di scala, la diseguaglianza come da esso misurata non cambierà, mentre diminuirà la povertà assoluta. Ma in questo caso ogni singolo ricco, in termini di variazione assoluta, guadagnerà più di ogni singolo povero. Si può quindi dire che una tale crescita sia pro-poor? Inoltre, lo stesso documento finisce per ammettere implicitamente la proprietà tautologica della povertà come prima definita e descritta. La capacità della crescita di ridurre la povertà dipende infatti non dalle sole istituzioni, ma dalla diseguaglianza iniziale. In tal modo, la povertà torna ad essere un circolo vizioso:

Even when the distribution of income itself does not change with growth, countries with similar rates of growth can have very different poverty outcomes, depending on their initial inequality. Other things being the same, growth leads to less poverty reduction in unequal societies than in egalitarian ones. If poor people get a small share of existing income and if inequality is unchanged, they will also get a small share of the new income generated by growth, muting the effects of growth on poverty (World Bank, 2000, p. 55).

Il secondo punto debole è quello di riferirsi continuamente ai poor-people come gruppo sociale chiaramente identificabile a fini politici. Su questa linea si inserisce la volontà di individuare e studiare le caratteristiche dei poveri, cioè se siano tendenzialmente donne, abitanti nelle zone rurali, appartenenti a certe etnie. E’ interessante l’osservazione fatta da Gorrieri (2002) in proposito:

E’ diffusa la tendenza a catalogare le categorie alle quali con maggiori probabilità appartengono i poveri: gli anziani, i disoccupati, i giovani che non trovano lavoro, (…). In realtà, in tutte le categorie professionali e in tutte le situazioni sociali ci sono poveri e non poveri. La condizione di povertà colpisce una fascia orizzontale della società (Gorrieri, 2002, p. 26, enfasi dell’autore).

Gorrieri si sta qui riferendo, molto concretamente, alla situazione italiana e quindi a un paese con un’economia di mercato sviluppata. La stessa osservazione potrebbe però valere per vari contesti di Paesi in via di sviluppo. Sosteniamo, quindi, che non si possa assumere l’esistenza di un gruppo di persone definibili come poor-people.

3. LA DEFINIZIONE DELLA POVERTA’: ALCUNI CENNI TEORICI

I problemi individuati mettono in luce un fondamentale difetto di analisi. Utilizzando un approccio multidimensionale, il documento confonde la fase descrittiva del fenomeno, nella quale si cercano di individuare gli aspetti rilevanti e le correlazioni, con quella interpretativa, dove si cerca di dare una spiegazione causale del “fenomeno povertà”. In questo modo, “Attacking Poverty” finisce per dare una spiegazione tautologica del fenomeno: è povero chi manca di alcune risorse fondamentali (reddito, istruzione, salute), ma a sua volta la causa della povertà è la mancanza di queste risorse fondamentali.

Questa difficoltà nasce, a nostro avviso, dalla semplice considerazione dell’assenza, nell’elaborazione teorica, di un fenomeno di tipo scientifico etichettabile sotto il nome di “povertà”. Nella teoria economica, infatti, non esiste un sistema di equazioni completo con il quale si possa cercare di descrivere questo fenomeno e fare previsioni sul suo andamento. In altre parole, non sembra possibile identificare la povertà con un fenomeno naturale, isolabile rispetto ad altre variabili. Ciò che si intende per povertà racchiude infatti sempre, al suo interno, una serie di considerazioni empiriche, unite però ad un sistema di riferimento valoriale. E tuttavia quest’ultimo non può, nella ricerca, essere univoco.

Il documento della World Bank cerca invece di agire in senso inverso, fornendo un’interpretazione della povertà come fenomeno naturale e come sistema chiuso. In questa visione la deprivazione è una anomalia del sistema, che può essere circoscritta al gruppo sociale dei poveri. Questo gruppo può quindi subire un trattamento diretto senza modificare la radice stessa dello sviluppo: essendo infatti la povertà un sistema chiuso, sappiamo quali modifiche operare sulla macchina del mercato per ottenere l’output desiderato. Le conseguenze pratiche (in termini di politiche) di questa visione teorica sono contenute nel WDR 2000/2001. In questa linea si inserisce infatti il progetto di identificare buone pratiche di sviluppo per le istituzioni nazionali di paesi completamente diversi fra di loro.

Può essere valida a questo proposito la critica di Green e Hulme (2005), per i quali non si possono studiare i poveri senza ragionare sul contesto social di appartenenza. Si può notare nelle loro parole e nel loro approccio sociologico la stessa critica metodologica all’approccio di sistema chiuso:

As a representational device, this way of thinking about the poor as enmeshed in a particular kind of relationship to a wider, non-poor, society seems to offer insight into the causes of poverty. This is not the case. Its conceptualization of the relation between poverty and society distorts in quite fundamental ways. Firstly, it separates the poor and thus poverty from the rest of society, so that poverty appears as a problem of the excluded (Green & Hulme, 2005, p. 871).

4. CONFONDENDO LE ACQUE: L’ASSENZA DI UN’ANALISI DELLE CAUSE DELLA POVERTA’

Dal ragionamento condotto finora, risulta chiaro che l’approccio mainstream alla povertà presenta un problema fondamentale: le analisi della povertà si sono sempre concentrate nel cercare di delineare le condizioni che contraddistinguono l’essere poveri. Di conseguenza, mentre una grande quantità di sforzi è stata profusa nel cercare di definire che cosa sia la povertà, pochissima attenzione è stata dedicata al tentare di comprenderne le cause. La tendenza è quindi quella di categorizzare e definire piuttosto che quella di spiegare le ragioni del fenomeno (Hickey & Bracking, 2005, p. 855). Come dimostrano le analisi della World Bank, la povertà può essere composta di molti effetti differenti, può presentare svariate caratteristiche e avere conseguenze di vario genere sulla vita delle persone. Come fanno notare Green e Hulme (2005), la recente enfasi che è stata data alla riduzione della povertà come “global target” ha spinto a riformulare teoricamente quelle che sono le parti componenti del più generale concetto di “essere poveri”.

Tuttavia, come abbia già accennato nel precedente paragrafo, ciò che le agenzie internazionali e nazionali sono in grado di cogliere sono soltanto quelle che appaiono come le “caratteristiche universali della povertà”; in realtà, questi non sono altro che effetti di ciò che si definisce come povertà, i risultati tangibili e misurabili del problema (Green & Hulme, 2005, pp. 868 – 869). Una riflessione sulle possibili cause che determinano i fenomeni misurati dagli indici della World Bank, è del tutto assente da questo genere di analisi. Le misurazioni e le quantificazioni non sono assolutamente in grado di spiegare le cause strutturali del perché una persona subisca determinati poverty effects in determinati contesti storici e politici. In altri termini, come sosteneva Sarah Bracking in un recente convegno svoltosi in Italia (2008), le odierne analisi della povertà sono più che altro concentrate sul definire chi sono i poveri piuttosto che sul tentare di spiegare perché queste persone siano povere.

Rifacendosi ad un interessante ragionamento di Maia Green (2006), si può affermare che la povertà viene rappresentata e costruita come un oggetto da analizzare e misurare, nelle sue diverse componenti costitutive, tanto che “poverty as an object is brought into being through the institutions established to describe, quantify and locate it” (Green, 2006, p. 1112)[3]. Pensar la povertà come un’entità reificata con specifiche caratteristiche fa in modo che la povertà sia descritta come uno stato nel quale le persone cadono e dal quale devono essere tratte in salvo (Green & Hulme, 2005, pp. 867 – 868).

Ciò che viene completamente trascurato, dunque, è un approccio dinamico che possa cogliere la dimensione storica, sociale e politica del problema della povertà. Nonostante le sue rappresentazioni dominanti, infatti, la povertà non è una “condizione ontologica” (Pithouse, 2003, p. 120) né un oggetto dall’esistenza autonoma, ma piuttosto il risultato di determinati processi sociali e politici che provocano determinati effetti sulle persone. Ci sembra importante, quindi, ragionare sul concetto in modo diverso: diventa fondamentale chiedersi “what kinds of social relations produce what kind of poverty effects” (Green & Hulme, 2005, p. 868).

A nostro modo di vedere, quello che viene oscurato è il processo sociale e politico di potere che crea specifiche dinamiche di esclusione – fra cui quei poverty effects, che vengono misurati nei rapporti della World Bank. Le relazioni e le dinamiche sociali e di potere si perdono nelle analisi delle agenzie internazionali, e insieme alle relazioni sociali vengono rimossi e dimenticati anche i processi storici particolari. Ciò che è rimosso, ad esempio, sono le disuguaglianze economiche e sociali che affondano le radici in processi storici e che sono alla base della condizione di povertà in molti Paesi in via di sviluppo.

5. CONCLUSIONI

Dal discorso condotto finora, risulta chiaro che la povertà non può essere affrontata da un punto di vista semplicemente tecnico e quantitativo. Le questioni sociali e le relazioni di potere, infatti, non sono problemi puramente tecnici, bensì le conseguenze di processi storici e di precise decisioni politiche ed economiche, che diventano istituzionalizzate nel corso del tempo.

Invece di interpretare la povertà come un’anomalia di un sistema “sano”, ci sembra più interessante vederla come una condizione storica prodotta da un insieme di relazioni di potere. Misurare la povertà e progettare strategie di “riduzione della povertà” è un esercizio sterile se non si mettono in discussioni le relazioni sociali e le decisioni politiche ed economiche che producono lo stato di deprivazione degli individui.

Bibliografia

Bracking, S. (2008), ‘Poverty in Africa: the parable of the broken television’, paper presentato al convegno AIDS, Povertà e Democrazia in Africa, Forlì, 9 Maggio 2008.

Gorrieri, E. (2002), Parti uguali tra disuguali (Bologna: Il Mulino).

Gramsci, A. (1975), Quaderni dal carcere (Torino, Einaudi).

Green, M. (2006), ‘Representing poverty and attacking representations: perspectives on poverty from social anthropology’, Journal of Development Studies, Vol. 42, No. 7.

Green, M., & Hulme, D. (2005), ‘From correlates and characteristics to causes: thinking about poverty from a chronic poverty perspective’, World Development, Vol. 33, No. 6.

Hickey, S., & Bracking, S. (2005), ‘Exploring the politics of chronic poverty: from representation to a politics of justice?’, World Development, Vol. 33, No. 6.

Hulme, D., & Shepherd, A. (2003), ‘Conceptualizing chronic poverty’, World Development, Vol. 31, No. 3.

Pithouse, R. (2003), ‘Producing the poor: the World Bank’s new discourse of domination’, African Sociological Review, Vol. 7, No. 2.

UN – General Assembly, (2000), United Nation Millennium Declaration, disponibile su http://www.un.org/millennium/declaration/ares552e.pdf (accesso 20 Febbraio 2008).

World Bank, (2001), World Development Report 2000/2001: Attacking Poverty (New York: Oxford University Press).


[1] Come notano anche Hulme & Shepherd (2003, p. 403)

[2] Si veda il World Development Report 2000/2001, significativamente intitolato “Attacking Poverty” (World Bank, 2001).

[3] L’autrice cita il riferimento ad Escobar, A. (1995), Encountering Development. The Making and Unmaking of the Third World (Princeton: Princeton University Press), pp. 21 – 22.

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